giovedì 31 gennaio 2013

FROM VENTANA






From ventana de una small home di periferia,
there is chi aspetta l'aurora de una new era.
El sun tra le clouds fa passare i suoi raggi solari settembrini
che ante un secondo non si vedono più.
Now Yo want tell you short pensamiento on this white foglio.
Mira oltre le nubes del tu corazòn, lì there is el sol que tù cerchi disperatamente!
Camina forever sobre your street also if you don't riesci a vedere la luz of tuoi dreams soon.
Oltre le nuvole there is SIEMPRE el sole. 
Non temere!

LO STILE EPISTOLARE




Testo originale in latino di Ovidio dalle Heroides XVIII, 1-8:

                                Leandro a Ero


Quam cuperem solitas, Hero, tibi ferre per undas
accipe Leandri, dum venit ipse, manum.
Mittit Abydenus, quam mallet ferre, salutem,
si cadat unda maris, Sesti puella, tibi.
Si mihi di faciles et sunt in amore secondi,
invitis oculis haec mea verba leges.
Sed non sunt faciles; nam cur mea vota morantur
currere me nota nec patiuntur aqua?


Traduzione letterale:
Accogli, o Ero, la lettera di Leandro,
che desidererei portarti io stesso
attraverso le onde note. Ti manda il saluto
il ragazzo di Abido, che preferirebbe
portare di persona a te, fanciulla di Sesto,
se si calmano le onde del mare.
Se gli dei mi sono propizi e favoriscono il mio amore,
leggerai queste mie parole, anche con occhi scontenti;
ma non sono propizi. Perché infatti mi fanno indugiare
e mi impediscono di correre sulle ben note onde?

Traduzione personalizzata:
Oh Ero,
desidero, mandarti leggiadro,
l’sms di Leandro,
attraverso le onde sonore dell’oboe,
con garbo inviartelo,
affinché io stesso fossi gaudio nel cantartelo.
Il ragazzo di Abido,
ti manda un bacino
e su una gazzella,
vorrebbe portarti lesto
la donzelletta di Sesto,
su un’onda zoppa e rotta.
Se oggi, i Postini fossero carini
con il mio cuoricino,
leggerai questo mio messaggino
come un topolino imbruttito;
ma essi oggi,
non sono in servizio,
infatti è pomeriggio
e mi fanno arrabbiare, penare,
nel non poter ascoltare e danzare,
sulle belle note
delle onde musicali?

LO STILE EPISTOLARE II


                                                            


Testo originale in latino di Ovidio dalle Heroides III, 1-4:

Briseide ad Achille
Quam legis, a rapta Briseide lettera venit,
vix bene barbarica Graeca notata manu.
Quascumque adspicies, lacrimae fecere lituras;
sed tamen et lacrimae pondera vocis habent. 

Traduzione letterale:
La lettera che leggi viene da Briseide che ti è stata portata via,
scritta a fatica in greco dalla mia mano di barbara.
Furono le mie lacrime a fare le cancellature che vedi;
ma anche le lacrime hanno lo stesso peso delle parole.

Traduzione personalizzata:
Caro Achille,
non te la piglià se leggerai ste righe con fatica, in un greco maccheronico.
Chi ti scrive è Briseide, colei che ti hanno rubato senza manco dire grazie.
Per te, ho sprecato tante di chire lacrime, che mi fanno male gli occhi solo a pensarci…
e poi ho fatto tante di chire cancellature, che manco io so più cosa c’è scritto.
Ma, proprio per l’importanza e la solennità di queste parole sbiadite,
anche queste lacrime, nell’inzuppare sta lettera come una spugna, hanno un loro peso ed elevatura;
perché ricorda chi ti scrive è Briseide, no l’ultima arrivata.    

la Sicilia e la metamorfosi che non c’è. Memi -Ciane ed il suo Incerto


                                            
                                              
(articolo del 2006 pubblicato sul giornalino Orizzonti del Liceo Classico Gioacchino da Fiore di Rende)


 
Memi, una donna, spinta dalla nostalgia e dal Disìo, ritorna tra la sua gente per ritrovare nei panni della dottoressa Ciane Santelia,il suo vero Io… e come un guerriero epico, lotta contro i tentacoli della nuova mafia siciliana.








 



Non sento lo schiocco della frusta sul dorso

bruno dei destrieri che portano l’alba, non è
sibilo di narici fumanti né di mitologie che mi
hanno medicata”.


Silvana Grasso nata a Macchia di Giarre
attualmente vive a Gela, dove insegna lettere classiche in
un liceo; con queste parole piene di phatos,
sentimento, calore e aulicità apre il primo capitolo del suo nuovo ed ultimo lavoro Disìo
Da ogni lettera, del suo romanzo traspare l’autenticità e la personalità del suo modo di scrivere, che rispecchia ,senza ombre, 
o peli sulla lingua, il suo carattere esplosivo e trasparente come le acque della sua amata Sicilia. 
La malinconia e molti caratteri tipici della scrittrice
siciliana trovano spazio nel personaggio principale del
romanzo…Memi. Una donna che, accanto al corpo moribondo
della madre tra un flash-back e le varie battaglie
contro la mafia, rievoca le paure, l’ingenuità, i dolori,
 le violenze e i visi familiari e non, che hanno segnato la
 sua infanzia tra le grigie e spoglie mura della sua casa
 popolare. Per scappare da tali fantasmi si rifuggirà nel
 Continente dove rinascerà sotto le false spoglie della
 dott.essa Ciane. Ma la sua sicilianità sarà come
UN  TUMORE INVISIBILE”, che come un vulcano dormiente
 si risveglierà dalle viscere e la riporterà nella usa
terra a riprendersi ciò che aveva abbandonato nei suoi
ricordi infantili, tra cui il suo vero Io. 
Attraverso le note della Turandot ,la scrittrice da voce all' Anima della nuova mafia, che con moderne tecnologie muove come un burattinaio i fili socio-politici della Sicilia,che come Memi non riuscirà e non vorrà svestirsi della sua vera identità e
diversità agli occhi del Continente.

”Dilegua, o notte!
Tramontate, stelle!All’alba Vincerò! Vincerò!”


      

“MISERERE” OLTRE LE SBARRE DELL’INDIFFERENZA.



(articolo del 2006 pubblicato sul giornalino Orizzonti del Liceo Classico Gioacchino da Fiore di Rende)

                                                                  



Cristina Zagaria
Miserere”-Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello Stato.
pp.310, euro 14,50, Edito   da Dario Flaccovio, 2006
 
                                                                               





                                                               
Cristina Zagaria, giornalista di nera per Repubblica, attraverso le pagine del suo ultimo romanzo“Miserere” edito da Dario Flaccovio, ci introduce nel mondo dei carceri italiani, dove la solitudine, il dolore fisico e psicologico vengono molte volte ignorati da chi fuori, non sa o non vuole sapere. Armida Miserere, servitrice dello Stato, direttrice del carcere di Sulmona,  vive e lavora a contatto con persone, che la maggior parte delle volte non riesce ad accettare la condanna e, soprattutto, l’isolamento dal resto del mondo e per volar via da quei pochi metri quadrati, si toglie i panni di quella vita, ormai morta da tempo, lontana dai propri cari e da una semplice carezza. La prigione come una ragnatela cattura ogni sentimento ed emozione. Ad essere vittime di queste mura fredde e buie, sono anche coloro che mettono la propria esistenza al servizio di un ambiente dove i minuti, le ore e gli anni sembra che non scorrano mai. Rappresentanti dello Stato, come Armida Miserere, che nei lunghi corridoi della disperazione, si sentono isolati ed abbandonati e, insieme ai prigionieri , muoiono dentro e diventano freddi come quelle mura, tanto difficili da evadere e da raccontare.
“Uccide ogni giorno di più, un mondo di killer professionisti e di pettegolezzi, un mondo che può arrivare a ucciderti, a colpi di pistola. E quando muori davvero, tutto è silenzio.”   

Amore...



(articolo del 2005 pubblicato sul giornalino Orizzonti del Liceo Classico Gioacchino da Fiore di Rende)


Sai c’è un bambino che sta in un posto che è molto lontano, lì non ci sono città e le case son tutte ad un piano...e se lo incontrerò lo so gli parlerò col cuore...AMORE...chissà  se è davvero il suo nome”.
Oggi dai microfoni di un programma televisivo di Raffaella Carrà, “Amore”, si parla di un tema sociale molto importante come il sostegno a distanza, che da ben cinque anni vede impegnata la nostra scuola, che tra alunni, professori e bidelli è arrivata a formare una vera e propria classe di 40 bambini, diventando un caso primo ed unico in Italia; che grazie ai nostri contributi ,con solo 25 euro a testa, non vivono più in strada, ma in comunità dove studiano, giocano costruendosi ,individualmente, una vera e propria dignità e identità nei loro paesi d’origine e tra la propria gente. Sul volto di questi bambini, c’è un sorriso di speranza che illumina i loro occhi profondi e pieni di lacrime amare, che bagnano purtroppo da tempo le strade e i villaggi dell’Africa, dell’India e di tutti quei paesi del terzo-quarto mondo, che vengono distinti sulla carta geografica anche per questa brutta piaga sociale, che porta a riflettere e spinge molti uomini di buona volontà a dare un po’  della loro felicità e serenità a chi non ce l’ha. Pensare a chi a bisogno non è tempo sprecato, ma molti siamo a chiudere gli occhi di fronte alla realtà di chi dorme su cartoni o sotto ponti e sogna su cuscini di pietra. A volte la vita nell’accanirsi contro i più deboli e poveri porta le madri ad abbandonare i propri figli in mezzo ad una strada o di fronte ad un portone di una chiesa, sperando che un angelo possa proteggerli dalle intemperie del mondo, ma non sempre va così;infatti quanti orchi e bruti esistono, che li svezzano ad uccidere e a rubare andando contro i veri valori della vita, portandoli molte volte a vestire panni da soldato, facendogli il lavaggio del cervello con promesse, aspettative e ideali che, forse, un giorno li riscatteranno da tutti i mali subiti durante l’infanzia perduta. Bambini che sono stati portati via dalle loro famiglie per andare a lavorare nelle cave o nelle fabbriche, diventando piccoli fantasmi che lo stesso Stato non riconosce più, perchè ormai sono troppo grandi, con mani callose e con tante rughe d’angoscia e di rassegnazione ,che il tempo stesso malvagio, gli ha segnato sul viso troppo presto, cancellandogli ,per sempre, la gioventù mai giunta, costringendoli  a diventare subito adulti e curvi, dovendo sostenere sulle spalle, fragili,  responsabilità e problemi vari da affrontare, che non danno la libertà nemmeno, per un secondo, di poter piangere e avere il diritto di provare, nell’animo, le vere paure e gioie di un bambino di 6-13 anni. A causa di malattie come l’aids, si trovano piccole creature che non fanno in tempo a nascere per poter vedere gli occhi delle propria madre, o la luce del mondo; se solo con il nostro sostegno riuscissimo a procurare le medicine che mancano, in un villaggio, sarebbe già una vita salvata in più, e una corpo da piangere in meno. Dio dice:”  agli altri, ciò che vorresti che gli altri facessero a te”. Credo che nessuno vorrebbe trovarsi senza l’affetto e l’amore di qualcuno, che certo non potrà mai sostituire la figura del padre e della madre naturale, ma essere un punto di riferimento importantissimo per chi, anche se sta a mille km distante da noi, sa sentire il profumo del nostro amore, che va oltre le barriere e i confini materiali dell’universo, perchè è un dono unico, speciale che, non ha bisogno di tante parole per arrivare dritto nel cuore della gente. Nel mondo tutti siamo indispensabili e tutti abbiamo il diritto di vivere, di essere bambini, donne e uomini, andare a scuola e lavorare, di poter abitare in un paese, fornito di ogni servizio pubblico e sanitario, per rendere vivibile ogni angolo del mondo, senza che la mancanza di questi diritti e doveri politici e sociali, possa essere motivo di guerre o di migrazioni clandestine sanguinose ed ingiuste, per chi è costretto a subirle e dover abbandonare, con il cuore pieno di paure e speranze, i propri ricordi e cari. Adottare a distanza un bambino è un gesto che non fa bene solo a chi lo riceve, ma anche a chi lo fa, perché ti porta a non concentrarti solo sui tuoi problemi, quotidiani o extra, che in qualche modo puoi risolvere, ma anche su questioni che in qualche parte del mondo, un bambino, giornalmente le sta affrontando però ,rispetto a prima, con coraggio e un briciolo di conforto in più, grazie anche a te che lo rendi parte della  tua famiglia, facendogli provare ogni paura e gioia della sua vita, facendolo crescere così …come tutti gli altri bambini del mondo.                     
                                      

Neve amara





UN ANNO FA DOPO I GRANDI FESTEGGIAMENTI NEL 

VEDERE IL GOVERNO BERLUSCONI FARE UN PASSO 

INDIETRO, CI SI ASPETTAVA UN PRESENTE MIGLIORE

. GIORNO DOPO GIORNO I SORRISI DEI FESTEGGIAMENTI, 

SI SONO TRASFORMATI IN SMORFIE DI PREOCCUPAZIONI, 

DOLORI, AUMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE, TAGLI 

ALLA SANITA', ALL'ISTRUZIONE, DIMINUZIONE DEI 

SERVIZI CON IL SOTTOFONDO DEL PUZZO DELLA 

POLITICA CHE INVECE DI PORRE RIMEDIO CONTRO I 

MALI DELLE MANOVRE DEI TECNICI, HANNO 

ACCENTUATO LA DELUSIONE E LA DISPERAZIONE. 

L'ALBA DI DOMANI COME SARà? LA MIA GENERAZIONE

 SARà QUELLA CON MENO DIRITTI E PIù DOVERI. SARà 

QUELLA CHE NON PUò PORSI IDEE E PROGETTI PER IL 

FUTURO, MA PENSARE SOLO ALL'OGGI E AL PRESENTE. 

SIAMO LA GENERAZIONE CHE NON VIENE ASCOLTATA, 

CHE NON VIENE NEMMENO GUARDATA DA CHI SIEDE 

SULLE POLTRONE PIù ALTE DEL POTERE. SIAMO LA 

GENERAZIONE A CUI HANNO PROMESSO UN SOGNO, MA

 INTORNO A ME VEDO SOLO SCENE DA INCUBO. è LA MIA 

GENERAZIONE CHE HA PERSO O QUELLA DEI MIEI 

GENITORI?... DOPO UN ANNO SIAMO QUI A LECCARCI LE 

FERITE DI UNA CRISI CHE ANCORA DEVE SFERRARE I 

SUOI COLPI PIù ATROCI. INTANTO DAL CIELO CADE NEVE 

AMARA E BOMBE INTELLIGENTI CHE COLPISCONO CHI è

 PRIVO DI ARMATURA.

                                                                                                                                            22/11/2012

LE PAROLE






Le parole che scriverò su questo foglio bianco, tra un secondo saranno già vecchie e rilette.
Le parole rimangono incastrate tra gli spazi vuoti, vorrebbero volar via ma non possono.
Silenzio,
c'è qualcuno che le fissa, le scruta da destra a sinistra e da sinistra verso destra. Diventano pallide dalla vergogna, con due sole scocche rosse in viso, passare in osservato è alquanto impossibile. Nella mente stanno al caldo nessuno può sapere cosa stanno confabulando. I pensieri nascondono le parole, le proteggono dietro la loro ombra. Fino a che nessuno le porrà nero su bianco alla mercé di tutti, saranno libere di essere pensate e di riempire gli spazi  monotoni del silenzio della mente. Le parole non stanno mai zitte. Le puoi ascoltare anche ora, mentre una dietro l'altra si mostrano nude davanti agli occhi dei lettori.
Le parole hanno una grandissima abilità. Non sempre si mostrano per quelle che sono nella loro trasparente ingenuità. Sanno mentire. Le parole sono delle armi potenti, possono con pochi caratteri distruggere le verità e le certezze fino ad allora conosciute. Possono ferire dal più potente dittatore al più umile servitore. Non macchiano con il sangue ma con la calunnia e l'infamia. Giocare con le parole può essere pericoloso, perché sanno come vendicarsi. Spesso le parole non servono per spiegare tanti perché. Nel vento si perdono come la polvere  si confondono nella confusione del traffico.
I lividi sul cuore non vengono fatti con pugni o schiaffi ma con parole violente che colpiscono senza pietà le vittime predilette. Le parole possono essere dimenticate in un secondo o rimanere scolpite per sempre nella memoria, dimenticarle diventa impossibile. Nel mondo vengono formulate migliaia di parole in diverse lingue, dialetti, segni, forme. La parola può essere scritta, parlata, cantata, letta, illustrata, baciata, arrabbiata.



                                                                                                                           04/01/2013

A mia nonna.





La sua vita sta per finire, come se il tempo vorace volesse farle compiere il suo ultimo compleanno, per poi svestirla di ogni sofferenza, che nemmeno può più comunicare.
La sua bellezza di ragazzina ora appartiene solo a quella foto in bianco e nero, che un’amante tiene nascosta nel suo taschino per poterla ogni notte, lontano da occhi indiscreti, contemplare ed amare posandola sopra il suo cuore. C’è chi, fuori dalla finestra, vestito di nero, con un lume in mano e l’orologio a pendolo, conta le sue ore, i suoi minuti…i suoi secondi di una vita arrivata al capolinea della sua corsa, e pian piano si sta fermando tra i binari di una vecchia locomotiva. I ricordi, come passeggeri guardano alienati, fuori dai finestrini, quell'uomo vestito di nero. Dal passato vorrebbero ritornare nella mente e riaggiustare, per un’ ultima volta, i propri bagagli fatti di: passi infantili, mamma-papà, le gite al mare o in montagna, gli animali del cortile, Roma  e le sue vetrine, l’eleganza, la moda, l’adolescenza e i suoi perché, la maturità, la vita di mamma, moglie e nonna poco attenta e tanto impacciata. Quei bagagli pieni di sorrisi, abbracci, liti, rabbie e… pianti in solitudine contro una vita, forse, un po’amara, difficile d’accettare e da prendere con serenità.
“Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere, ma anche tutta vita per imparare a morire”.C’è chi , a volte, non riesce neanche a capire determinate cose e ad amare la vita e di conseguenza a rispettare la morte. L’inizio e la fine fanno parte di chi sa d’esistere, e sa che dovrà ,prima o poi, vedere in faccia il suo destino e la sua ultima sosta in una stazione, dove tutti ci ritroveremo un giorno.

                                                                                                        29/11/2006

IL VENTO DEL NORD



                                                                                                    (breve racconto del 2003)

          
Questa storia narra di un paese del Sud del mondo dove, sull'altura di un monte superbo e sovrano di tutti i campi di grano, la gente viveva una vita agiata, serena, piena di ricchezze. Qui le case e i giardini incantati ogni giorno venivano baciati dal sole, che con i suoi raggi giovani e caldi illuminava i visi delle persone come una carezza. In cielo le rondini cantavano allegre, spensierate…si poteva udire il battito delle loro ali, sorvolare con grazia i campi di grano, dove i contadini lavoravano con il sorriso sulle labbra e le loro fatiche venivano ricompensate con lauti guadagni. Le strade di questo paese, che battezzeremo con il nome di “Felice”, erano sempre ornate di fiori colorati e prati verdi, in cui le farfalle tra i papaveri rossi amavano “ballare” ed il gregge, di un pastorello, pascolare, mangiare quell'erba fresca ed appisolare sotto una grande quercia, quando il sole ardeva a mezzogiorno. La rugiada, cadendo, durante la notte rendeva il bosco attorno al paese, alle prime luci dell’alba, misterioso e incantato.
I nobili godevano di ville bellissime, in cui avvenivano feste sontuose e tutta la comunità poteva farne parte: non importava che vestiti indossasse un contadino o un artigiano, per ballare tutti potevano accedere purché avessero come documento di riconoscimento il sorriso e l’umiltà che distinguevano un abitante di Felice da un altro. Tutti erano amici e si rispettavano come fratelli; la cosa che contava era la felicità e chi era triste e non accettava quella “strana” comunità veniva isolato.
Come ogni paese importante e dignitoso Felice aveva la sua famiglia predominante, rispetto alle altre. Questa era capeggiata da Carlo Vivo. Lui abitava in una delle ville più belle di Felice; era un uomo estroso, che con un look giovanile nascondeva i suoi 40 anni, vissuti con gioia, spensieratezza, amore e passione per tutto ciò che vedeva e credeva, il suo cognome rispecchiava veramente la sua voglia di vivere, di non voler cadere mai nella morte mentale e nella cattiveria. I capelli erano brizzolati e sul capo non si faceva mai mancare un cappello, che a seconda della giornata cambiava colore e foggia, gli occhi erano azzurri ed il viso era pacioccone e simpatico; dovunque andasse chi lo fermava non temeva il suo nome, ma amava ascoltare i suoi motti allegri e come un attore comico, riusciva ad accendere sulle labbra della gente un sorriso. Carlo poteva vantarsi di una bella e dolce moglie, Serenella, una donna sofisticata e leggiadra che con i suoi occhi verdi ed i capelli neri poteva far invidia a chiunque. Ma della sua bellezza nessuno dava peso e tutte le donne del paese rispettavano, amavano e porgevano le loro braccia buone a Serenella che con la sua voce cristallina e lo sguardo vivace cantava con armonia nel coro della Chiesa ogni domenica e festività, tutti restavano incantati ad ammirarla. Le campane suonavano frenetiche a mezzogiorno e quel segnale stava a ricordare la parte più bella della giornata, il pranzo. Le nonne e le zie allestivano le tavole con tante vivande, che emanavano con i loro profumi, piacere e voglia di brindare alla famiglia e a Dio. Naturalmente il pomeriggio i ragazzini si riunivano nella piazza principale del paese, dove i più piccoli giocavano a calcio o a nascondino. I più grandi si scambiavano battute, sorrisi, sguardi, abbracci…baci; questo quadretto perfetto veniva incorniciato da musiche, balli, canti; c’era chi si sfidava a correre con le bici e a vedere chi sarebbe stato il leader della settimana. Chi vinceva, all'ultimo, pagava da bere a tutti, doveva aiutare le povere vecchiette a portare la spesa, lavorare più del dovuto nei campi; insomma, far valere le proprie capacità ed umiltà nel dare una mano agli altri, mettere in gioco tutte le carte di solidarietà e colui che faceva ciò veniva ricambiato con il rispetto e l’amicizia (solo così poteva definirsi leader dell’umiltà e della felicità) invece, chi vinceva e si rifiutava di sacrificarsi per gli altri veniva isolato per un bel po’ di tempo da tutti. Le ragazze amavano vedere i loro coetanei sfidarsi, ma preferivano divertirsi diversamente: passeggiare per le viuzze del paese, scrutare le vetrine dei negozi, con occhi attenti, a guardare i prezzi degli abiti più eleganti ed estivi della moda del tempo. Le ragazze si dilettavano a cucire a mano stole e sublimi capellini, con grazia e professionalità. Tutte, dopo la scuola, aiutavano le madri, sperando all'ultimo di poter ottenere il permesso per uscire la sera con le amiche o i ragazzi.
La luna, durante le sere estive era tonda e, con sospettoso silenzio, vegliava fra le nuvole il mercato che ogni sera rallegrava il paese e attirava fuori dalle case e dalle feste tutti gli abitanti, alla ricerca dei frutti freschi della stagione come le albicocche, le pesche…ma anche per riempire le tasche di dolciumi ed oggettini artigianali per regalarli ai propri cari. Ogni anno, stagione e mese, Felice ed i suoi abitanti continuarono a vivere serenamente ed il loro benessere era invidiato da chi abitava sugli altri monti, che non capiva dove e come riuscivano a trarre fuori tutta quella felicità ed amore.

In una notte d’inverno, quando tutti stavano dormendo e sognando la neve, che soffice era caduta per tutta la giornata rendendo il paese incantato e fiabesco, alle porte di Felice incominciò a farsi avanti un personaggio sconosciuto; e ancora per pochi secondi ignoto agli abitanti…il Vento.
Il vento con il suo mantello trasparente avvolse le case. Con le sue catene ai piedi si trascinava disperato per le strade e le campagne, facendo fluttuare nell'aria la polvere e le foglie che sembravano danzare un ballo frenetico e folcloristico al ritmo delle folate e del canto stridulo, profondo e tetro. Il vento con le sue catene, simile ad un fantasma senza tregua e pace, sbatteva contro ogni cosa che gli venisse incontro. Le finestre di tutto il paese si accesero in contemporanea. alcune persone si alzarono di colpo e spinti dalla curiosità andarono ad udire meglio quello strano essere, che aveva tolto il sonno sereno agli abitanti e a sua volta aveva frantumato quella “strana” tranquillità, che regnava da sempre su Felice. I bambini, impauriti, si rifugiarono fra le lenzuola dei genitori, cercando di ritrovare la via dei sogni innocenti e fantastici, che quella notte avevano aggiunto, ai vari colori dell’allegria, le sfumature nere, grigie ed opache della paura. Il cielo incominciò a farsi più scuro del dovuto, sembrava che il vento con i suoi soffi avesse spento anche le stelle e la luna nel firmamento, dove presero posto grandi nuvole cariche di pioggia, lampi accecanti e tuoni, che fecero spaventare anche gli animali nelle stalle. Dopo pochi secondi la pioggia aumentò e si crearono varie pozze d’acqua sull'asfalto rovinato. Gli uomini coraggiosi uscirono dalle loro calde case e, ben coperti, andarono nelle campagne a vedere se il vento fosse passato anche di lì. Giunti con le torce in mano, chi a piedi chi in bici, videro tutto il raccolto distrutto; i visi dei contadini parlavano da soli e a bagnare i loro occhi non era solo la pioggia, che imperterrita stava cadendo, ma anche le lacrime amare e dolorose del pianto silenzioso. Anche i nobili non riuscirono a chiudere occhio quella notte e le varie notti successive a quella tempesta, che non diede speranze di poter vedere i raggi del sole e di poter udire il bel canto degli uccelli. I contadini, i nobili e tutta la comunità, coperta da lenzuoli o da ombrelli, si riunì qualche giorno più tardi, nella piazza centrale e un esperto di meteorologia, ma anche storico, venuto da un paese non lontano dal loro, comunicò che quel vento era un avvenimento speciale, che ogni millennio, nella prima settimana di dicembre, si scatenava contro Felice. Il meteorologo parlò a lungo e disse che dietro a questa vicenda climatica c’erano tante leggende. Raccontò di una bambina, che proprio a Felice, dopo una giornata ventosa, venne trovata abbandonata vicino alle scale di una villa di una nobile famiglia. Questa adottò la piccola trovatella e le diede il nome di Anna. Quel paese, che era sempre stato felice di nome e di fatto, incominciò ad essere infelice e triste. Quella bambina crebbe col passare del tempo e i suoi occhi neri incutevano disagio a chiunque la guardasse. Anna, infatti, non conobbe mai il significato dell’amore, dell’amicizia, della fede…dell’umiltà, ma approfittò della sua figura malefica rendendo succubi, della sua cattiveria,  tutti coloro che volevano essere gentili con lei. Visse di solitudine fino a quando una sera di dicembre morì e proprio in quella notte un vento minaccioso, freddo, risuonò tra i vicoli del paese. Si crede che questo vento, che ogni millennio ritorna a Felice sia l’anima tetra, ostile ed infelice di quella bimba bruna, venuta dal nord che ritorna per far svegliare la paura nelle anime innocenti ed allegre degli abitanti, e come giunge se ne va da Felice con il vento, suo unico amico.
Lo storico, ad un certo punto, venne interrotto da un ragazzo che gli chiese-:”Signore ma come fate a conoscere questa leggenda, legata al mio paese?”-E lo storico-meteorologo rispose-:” Una volta anche i miei avi abitavano a Felice, e quel vento io lo interpreto non solo come l’anima infelice di Anna e della sua leggenda ignota, ma come la disperazione, la fame, la carestia, la morte ed il dolore che hanno costretto i miei avi a scappare,tanto tempo fa, dal Sud, da questa piena d’amore, a causa di una guerra. Dove il male è riuscito a predominare sul bene, calpestando con brutalità i sogni e le speranze di chi credeva nella pace e nella parola, non nelle armi e nel sangue, che hanno distrutto e bagnato il loro ed il vostro paese troppo perfetto per poter essere accettato e amato dal resto del mondo, invidioso ed imperfetto basato sulla cattiveria, la violenza contro i più deboli. Lo so, conoscere la verità fa male, anche io soffrì quando mia nonna mi raccontò di ciò che avevano subito, per salvare la felicità e la libertà . Prima di questo vento, che vi ha sorpreso l’altra notte, non conoscevate la storia delle vostre radici, perché vivevate nella bambagia, in una sfera  serena dove vi siete sempre distinti. Ora ancor di più, forse grazie anche al vento del nord che vi ha svegliati, dovete coltivare, amare, rispettare, crescere e morire in ciò che credete senza aver paura del giudizio degli altri e di chi discrimina i vostri ideali, perché vorrà dire che coloro, nel non apprezzare la felicità, saranno figli del vento e della guerra”.
La comunità ascoltava ammutolita quell'uomo che, dopo aver parlato così tanto, sorrise a tutti e lasciò la piazza. Ad un tratto la pioggia cessò di cadere e un bambino, con i suoi occhietti ancora stupiti dalle parole di quel signore, alzò lo sguardo e vide come un miracolo il sole intimorito, che faceva capolino da una nuvoletta sola nell'immenso azzurro del cielo che venne illuminato dai raggi e dai sorrisi caldi degli abitanti di Felice.
Il vento volto nel suo mantello e con le sue catene era scomparso. Nel silenzio le persone, guardando verso occidente il monte più lontano, immaginavano il Vento del Nord che con il suo destriero se ne andava per nuove avventure, salutando con la mano e celando nell'anima la sua sconfitta e la voglia di ritornare a visitare tra un millennio quel paese magico, ancor più solare, allegro e Felice di sempre.
Dopo aver lanciato un urlo di felicità, la gente si ricongiunse all'armonia che era stata rotta da quel mal tempo.
Quel ragazzo, che pose la domanda allo storico, da quel giorno si arricchì maggiormente; infatti, mentre gli altri erano con il naso all'insù, vide quell'uomo incamminarsi verso le porte del paese e, come il vento, scomparve per magia dalla sua visuale. Però, prima di svanire del tutto, sorrise a quel ragazzo, che nel vedere quel gesto capì che chi aveva parlato per ore al centro della piazza e che aveva aperto gli occhi alla gente di Felice, per non cadere nella disperazione, era stata la Speranza.  Da allora quel ragazzo non la perse mai.

                                                   

IERI ED OGGI



(breve racconto 24/12/2005)


È il 24 di dicembre del 1910, il gallo come un orologio svizzero canta dall'alto della sua fattoria, il risveglio della campagna calabrese, che come un bambino immerso nei suoi sogni, riabbraccia la realtà della quotidianità riaprendo gli occhi, ancora per un po’ sotto le coperte calde della notte. La luce del sole, come una carezza, si poggia sulle guance della gente per annunciar loro soavemente l’inizio di un nuovo giorno. Le mamme da buone mattiniere preparano la colazione ai figli, fatta di latte caldo appena munto dalla mucca dal pastore, che con un po’di pane e miele riscalda l’anima e le mani gelate dal freddo che, trapela dagli infissi delle finestre munite solo da semplici imposte. I padri addosso ad un mulo, con in testa un cappello scuro, vanno a comprare la legna dal boscaiolo più vicino per assicurare, cibo e mani calde alle proprie famiglie, la sera al loro ritorno. Le giovani donne intonando una dolce canzone, con il fazzoletto in testa si apprestano insieme alle madri ad andare al fiume a lavare a mano le lenzuola e gli abiti sporchi per poi recarsi a raccogliere le olive, le noci, le arance… gli odori e i colori  della campagna da portare a casa o da regalare ai vicini e ai parenti come dono d’affetto sincero. A mezzogiorno, il canto del gallo risuona di nuovo dall’alto, per invitare la gente ad andare nelle piazze e nei mercati dove possono trovare: stoffe, prodotti di stagione, le uova e gli animali da fattoria.
I giovani e gli adulti, invece, si preparano a brindare e a suonare la fisarmonica, dopo aver ammazzato il maiale e quindi dopo aver assicurato provviste per  l’inverno e per gli eventi dell’anno, tra cui anche le domeniche, da festeggiare in famiglia. Nel pomeriggio
il sole circondato da nuvole passeggere, come un buon forno fa lievitare il pane appena impastato dalle nonne, che con le loro mani morbide e sagge danno forma ed anima ai dolci canditi di zucchero a velo, cioccolata, crema, miele e castagne… creando leccornie di prima qualità, dove il segreto per renderle così speciali è: l’amore, che difficilmente si può spiegare a parole, ma è una sensazione che non se ne va via solo all’ultimo boccone del pezzo di torta, ma rimane vivo, il ricordo del suo profumo, nell’olfatto e nel cuore di chi lo assaggia. La sera la gente si sveste dei panni quotidiani per sfoggiare quelli natalizi, che come le stoviglie e gli addobbi, vengono  tirati fuori dagli armadi una volta all’anno per celebrare la nascita di Gesù. La sera le case risplendono dei sorrisi, degli abbracci, dei balli e delle canzoni che i parenti, tra un brindisi ed un altro del vino d’annata, fanno intorno ad una tavolata dove c’è chi piange di gioia per il troppo ridere e c’è chi si dispera a carte tra una vittoria ed una sconfitta. Non importa se all’ultimo non si scartano i regali quello che conta: a giovani , donne ed anziani è di stare insieme il più possibile, passando la serata al ritmo di musiche e storie vere o inventate che i nonni, da gran  maestri di vita, raccontano con voce impostata, ai bambini che incuriositi ascoltano in silenzio, mentre fuori la porta la notte,incantata dall’atmosfera natalizia, aspetta che scocchi la mezzanotte per sentire il suono delle campane che invitano le persone a messa.
È il 24 di dicembre del 2005, il sole si alza dai grattacieli per annunciare al ritmo di rock en’blues il giorno più caotico e bello dell’anno. I ragazzi dormono fino a tardi e nei loro sogni immaginano chi sa che cosa mamma e papà abbiano posto sotto l’albero per loro. Naturalmente c’è chi come i bambini che si alzano presto per scrutare dalle finestre delle loro stanze qualche traccia della slitta con le renne sul manto innevato del campetto di calcio, sperando e pregando che la loro letterina sia arrivata in tempo a Babbo Natale. Le mamme si alzano da buone mattiniere, ma lasciano tutto pronto e confezionato per colazione ai figli dormiglioni, per correre a comprare pesce fresco, panettoni, dolciumi, e qualche altro regalo all’ultimo secondo. I padri vanno a comprare il giornale, lo spumante, la carne, il biglietto della lotteria e l’ultimo cd con tutte le canzoni natalizie. Le strade della città sono colme di persone, che per la fretta lasciano la macchina in doppia fila e corrono sfrenati dal parrucchiere o ad acquistare il vestito firmato da indossare la sera dell’ultimo dell’anno pagandolo a metà prezzo, così da far invidia ad amici e parenti nell’andare a mangiare tutti insieme al ristorante, evitando così stress da cucina, ma ansiosi di accogliere lo scoccare del nuovo anno con uno strepitoso trenino con cappellino e coriandoli in testa. La sera di natale non può mancare l’albero che con le sue luci profane si affiancano a quelle sacre del presepe posto vicino al camino, dove sono appese le calze della befana che stanno in attesa  di essere riempite di dolci o carbone. Dopo mangiato, le persone si dilettano a scartare con euforia i regali  voluti, sperati o accettati per forza, anche se in verità non era quello che volevano e forse l’anno prossimo finiranno sotto un nuovo albero di Natale per essere riciclati. A mezzanotte dai balconi la gente incantata dai colori dei fuochi d’artificio, tra un bacio ed un augurio, scruta dall’alto la stella cometa, che nonostante la sua età, riesce con la sua luce a far sognare grandi e piccini come 2005 anni fa. Come il 24 di dicembre del 1910  le campane delle chiese suonano per invitare la gente di fede ad andare a messa ad accogliere la venuta di Gesù Cristo tra noi mortali, che come una magia, ferma ogni cosa e porta tutti quanti a riflettere sul vero senso del Natale…che non è l’odio ma L’AMORE, che non è il caos ma la PACE.

AUGURI

AROLDO TIERI IL TALENTO TEATRALE DEL NOVECENTO.



(articolo del 2007 pubblicato sul giornalino Orizzonti del Liceo Classico Gioacchino da Fiore di Rende)

E non si può essere attori senza essere colti e senza  assorbire la vita nella sua totalità anche immaginaria: essere insomma aperti, curiosi, disponibili, sensibili all’esistere. Tutto questo, unito a una grande disciplina, che in teatro è indispensabile”.( Aroldo Tieri).

Il teatro italiano qualche mese fa, il 29 dicembre 2006, tra le mura di una clinica romana, ha visto spegnersi, a 89 anni, uno degli ultimi istrioni, mattatori, della “vecchia guardia” , Aroldo Tieri . Un emigrante del sud, precisamente, di Corigliano Calabro che a soli 3 anni insieme alla famiglia, lasciò il suo paese natio, per  vivere nella caotica ed eterna  Roma degli anni 20’. La passione per la recitazione e il palcoscenico la ereditò dal padre, Vincenzo Tieri, persona colta e raffinata, che diede al figlio un’ottima educazione e basi solide per vivere nel mondo  dello spettacolo, sia nelle vesti di uomo che di attore. Una volta licenziato dagli studi liceali, Aroldo non perse tempo e con molta determinazione fu uno dei primi attori a formarsi, professionalmente, all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. Una delle sue prime interpretazioni fu di Malatestino nella “Francesca da Riminidi D’Annunzio.  Il teatro italiano già nel 1938 poté vantarsi del debutto sul palcoscenico di Aroldo, che entrò a far parte della storica compagnia del Teatro Eliseo di Roma, che richiama alla mente attori dal calibro di Andreina Pagnani, Carlo Ninchi, Rina Morelli, Paolo Stoppa e Gino Cervi. Aroldo con modestia riuscì ad ottenere ruoli importanti, o di spalla che lo videro calcare i più importanti teatri italiani e non solo, insieme a miti come: Evi Maltagliati, Anna Proclemer, Salvo Randone, Anna Magnani, Valeria Valeri. La sua splendida carriera fu segnata dal incontro professionale e sentimentale con Giuliana Lojodice. Condivisero varie rappresentazioni teatrali come: ”Monsieur Jeandi R. Vailland, regia di Marco Ferrero(1970); “Un amore impossibileda “Taide” di Vincenzo Tieri, regia di Mario Ferrero(1970); ”L’ uomo, la bestia, la virtù di L. Pirandello, regia di P.A. Barbini(1973); “Un marito”di Italo Svevo, regia di Gianfranco De Bosio(1983). Aroldo, nel 1999, si congedò dalle scene con “L’amante inglese” di Margherite Duras, regia di Giancarlo Sepe. Egli si prestò anche al cinema e in totale girò ben 126 film, e nel suo piccolo riuscì a recitare con grandi della comicità italiana semplice, pura e genuina come: Totò e Peppino De Filippo. Tra il 1955 e il 1965 recitò in molti sceneggiati per la televisione e per la sua personalità garbata nel ’60 venne scelto per presentare un’edizione del mitico programma Canzonissima. Aroldo Tieri in ogni sua interpretazione faceva trasparire il suo amore ed orgoglio  per la Calabria. Un emigrato che non sentì mai lontana la sua terra e la sua gente dal suo cuore e dai suoi modi. In sé era consapevole che la sua gestualità, unicità, capacità d’introspezione, personalità e fascino li doveva alle sue origini calabresi. Uno di noi, che ammetteva di non conoscere il calabrese, ma per arrivare all’apice del successo ampliò i propri saperi studiando altre lingue come quella di Shakespeare, di Pirandello e dei tragici greci. Un attore che giovanissimo lasciò tutto per dedicare la sua vita all’arte e allo spettacolo. Un uomo a cui non pesò mai l’idea di essere uno dei tanti emigranti del sud, che per tentare la fortuna dovette fare quella valigia di cartone che un giorno, forse, sarebbe diventata un’importante compagna di viaggio delle lunghe e splendide tournèe, dove non poteva fare a meno di avere con sé insaccati e vasetti sottolio, che gli facevano sentire più vicini gli odori e i colori infantili  della sua amata Corigliano Calabro.     
Tieri è tout court, uno straordinario attore: con le radici ben piantate nel meglio della tradizione di una professionalità antica e rara; è un artista che non ha cessato di rinnovarsi e affinarsi affacciandosi con ferma voce a tutti gli snodi progressivi del discorso teatrale italiano”(Vittorio Gassman).

CORRADO ALVARO. LA VOCE DELLA CALABRIA



(articolo del 2007 pubblicato sul giornalino Orizzonti del Liceo Classico Gioacchino da Fiore di Rende)

Guardare, contemplare, pensare  che è poi la libertà suprema dell’uomo”.

Dall'’umile terra dell’Aspromonte nel piccolo paese di San. Luca, il 15 aprile 1894, nacque il saggista, poeta, scrittore…Corrado Alvaro. Un nome della letteratura italiana, che uscì dalla massa contadina e arretrata dei suoi monti, per intraprendere una conoscenza più profonda del mondo e del resto d’Italia, che stava cambiando rapidamente lasciandosi alle spalle una Calabria, un Sud primitivo con strade non asfaltate e case diroccate nelle isolate montagne, o nelle impervie coste.
Profumi, sfumature, costumi, mentalità agreste, medievali di San Luca riecheggiano  tra le pagine di Alvaro. Egli nei suoi primi 10 anni di vita venne catturato ed incantato dalle storie vere, o fantastiche, che il dotto padre Antonio ed il vecchio maestro del luogo narravano ai fanciulli e ai grandi poveri ed analfabeti ricordando: i miti, le leggende, e le figure eroiche del passato, che avevano reso con le loro gesta, misteriosi ed affascinanti quei luoghi così lontani dal resto del mondo. Nelle sue poesie canta all'infanzia, alla gioventù paragonandole all’arte, in cui nonostante i tempi, c’è sempre quel pizzico di bello, piacevole e fantastico che, difficilmente, si può rivivere nella fase adulta, dove l’uomo giunge a comprendere che i prossimi anni della sua vita, non sono altro che l’illuminazione ed il riflesso di quelli passati. Nei saggi di Alvaro possiamo cogliere un visione romantica sulla morte. Infatti si rifà al pensiero dantesco e cavalleresco, in cui si parla di “dolce”morte, soprattutto, quando si è giovani e lontani dalla vecchiaia che la rende, invece, un evento prossimo, amaro. Lo stesso vale dell’idea sulla figura paterna e sul rapporto padre-figlio nella  società.”Tanto lavoro per sciuparsi ed essere diversi, e poi ritrovarsi come la pianta che ha in sé, come dice Campanella, la legge del suo frutto.”  Infatti nell'opera” Memorie e vita Alvaro descrive il padre Antonio, come una persona carismatica, curiosa, piena di risorse. Da buon calabrese pose la sua fede nel figlio, facendolo studiare fuori e permettendogli di confrontarsi con culture e pensieri diversi dal suo piccolo borgo. Fece così per poter riscattare i suoi sbagli di genitore, che si era fermato a lavorare come maestro, senza tentare il successo e la vita fuori da quei confini poveri, ma insostituibili dell’Aspromonte. Alvaro, nonostante le critiche osservazioni sul padre, non potrà evitare la sua metamorfosi fisica e mentale, che ogni giorno che cresceva ed invecchiava,  lo portava a rassomigliarlo nella voce, nelle passioni, nella posa, nei gesti. Così come l’idea della morte, anche l’immagine paterna, si impadronì della sua armonia e unicità, che aveva costruito negli anni lontano da casa:”In un paese urbano dove tutto era incolore, arido e senza scopo.” 
Alvaro nei suoi saggi analizza dettagliatamente e con molta sensibilità la mentalità calabrese. Racconta del malessere sociale, culturale, politico, che varie potenze straniere col passare dei secoli hanno alimentato e condannato, in un popolo che cercava di estraniarsi dal proprio dramma, ascoltando i canti in cui rivedeva l’orgoglio delle proprie radici e riuscendo a cogliere il motivo per andare avanti e non abbassare mai la testa. “L’invidia è il peccato mortale delle regioni povere:nei migliori diventa emulazione, ambizione, sprona alla conquista.” Di fronte all'indifferenza e all’ insofferenza del mondo, i calabresi hanno risposto con atti di omertà, vittimismo, vendetta…contro l’ingiustizia del passato, che si era presa gioco del suo nome e del suo sangue. Una Calabria che, ancora, non riesce a guardare avanti ma, ogni volta, il suo spirito ricade nel rancore del passato.
Corrado Alvaro in quei pochi anni vissuti sull'Aspromonte, riuscì a comprendere la vera identità del popolo calabrese, che trova la molla della sua esistenza: nella dignità, nella personalità e nella libertà interiore… e cerca la sua linfa vitale nella famiglia. Qui il comando, funzione indiscutibile, viene esercitato dal capo famiglia, che come un soldato difende i suoi cari e la sua terra con amore, orgoglio e avidità di vita. 
“Il paese era gramo e povero, rispetto alle ricchezze del mondo, e a me pareva il più ricco e il più vario”.