(breve racconto del 2003)
Questa
storia narra di un paese del Sud del mondo dove, sull'altura di un monte
superbo e sovrano di tutti i campi di grano, la gente viveva una vita agiata,
serena, piena di ricchezze. Qui le case e i giardini incantati ogni giorno
venivano baciati dal sole, che con i suoi raggi giovani e caldi illuminava i
visi delle persone come una carezza. In cielo le rondini cantavano allegre,
spensierate…si poteva udire il battito delle loro ali, sorvolare con grazia i campi
di grano, dove i contadini lavoravano con il sorriso sulle labbra e le loro
fatiche venivano ricompensate con lauti guadagni. Le strade di questo paese,
che battezzeremo con il nome di “Felice”, erano sempre ornate di fiori colorati
e prati verdi, in cui le farfalle tra i papaveri rossi amavano “ballare” ed il
gregge, di un pastorello, pascolare, mangiare quell'erba fresca ed appisolare
sotto una grande quercia, quando il sole ardeva a mezzogiorno. La rugiada,
cadendo, durante la notte rendeva il bosco attorno al paese, alle prime luci
dell’alba, misterioso e incantato.
I
nobili godevano di ville bellissime, in cui avvenivano feste sontuose e tutta
la comunità poteva farne parte: non importava che vestiti indossasse un
contadino o un artigiano, per ballare tutti potevano accedere purché avessero come
documento di riconoscimento il sorriso e l’umiltà che distinguevano un abitante
di Felice da un altro. Tutti erano amici e si rispettavano come fratelli; la
cosa che contava era la felicità e chi era triste e non accettava quella
“strana” comunità veniva isolato.
Come
ogni paese importante e dignitoso Felice aveva la sua famiglia predominante,
rispetto alle altre. Questa era capeggiata da Carlo Vivo. Lui abitava in una
delle ville più belle di Felice; era un uomo estroso, che con un look giovanile
nascondeva i suoi 40 anni, vissuti con gioia, spensieratezza, amore e passione
per tutto ciò che vedeva e credeva, il suo cognome rispecchiava veramente la
sua voglia di vivere, di non voler cadere mai nella morte mentale e nella
cattiveria. I capelli erano brizzolati e sul capo non si faceva mai mancare un
cappello, che a seconda della giornata cambiava colore e foggia, gli occhi
erano azzurri ed il viso era pacioccone e simpatico; dovunque andasse chi lo
fermava non temeva il suo nome, ma amava ascoltare i suoi motti allegri e come
un attore comico, riusciva ad accendere sulle labbra della gente un sorriso.
Carlo poteva vantarsi di una bella e dolce moglie, Serenella, una donna
sofisticata e leggiadra che con i suoi occhi verdi ed i capelli neri poteva far
invidia a chiunque. Ma della sua bellezza nessuno dava peso e tutte le donne
del paese rispettavano, amavano e porgevano le loro braccia buone a Serenella
che con la sua voce cristallina e lo sguardo vivace cantava con armonia nel
coro della Chiesa ogni domenica e festività, tutti restavano incantati ad
ammirarla. Le campane suonavano frenetiche a mezzogiorno e quel segnale stava a
ricordare la parte più bella della giornata, il pranzo. Le nonne e le zie
allestivano le tavole con tante vivande, che emanavano con i loro profumi,
piacere e voglia di brindare alla famiglia e a Dio. Naturalmente il pomeriggio
i ragazzini si riunivano nella piazza principale del paese, dove i più piccoli
giocavano a calcio o a nascondino. I più grandi si scambiavano battute,
sorrisi, sguardi, abbracci…baci; questo quadretto perfetto veniva incorniciato
da musiche, balli, canti; c’era chi si sfidava a correre con le bici e a vedere
chi sarebbe stato il leader della settimana. Chi vinceva, all'ultimo, pagava da
bere a tutti, doveva aiutare le povere vecchiette a portare la spesa, lavorare
più del dovuto nei campi; insomma, far valere le proprie capacità ed umiltà nel
dare una mano agli altri, mettere in gioco tutte le carte di solidarietà e colui
che faceva ciò veniva ricambiato con il rispetto e l’amicizia (solo così poteva
definirsi leader dell’umiltà e della felicità) invece, chi vinceva e si
rifiutava di sacrificarsi per gli altri veniva isolato per un bel po’ di tempo
da tutti. Le ragazze amavano vedere i loro coetanei sfidarsi, ma preferivano
divertirsi diversamente: passeggiare per le viuzze del paese, scrutare le
vetrine dei negozi, con occhi attenti, a guardare i prezzi degli abiti più
eleganti ed estivi della moda del tempo. Le ragazze si dilettavano a cucire a
mano stole e sublimi capellini, con grazia e professionalità. Tutte, dopo la
scuola, aiutavano le madri, sperando all'ultimo di poter ottenere il permesso
per uscire la sera con le amiche o i ragazzi.
La
luna, durante le sere estive era tonda e, con sospettoso silenzio, vegliava fra
le nuvole il mercato che ogni sera rallegrava il paese e attirava fuori dalle
case e dalle feste tutti gli abitanti, alla ricerca dei frutti freschi della
stagione come le albicocche, le pesche…ma anche per riempire le tasche di
dolciumi ed oggettini artigianali per regalarli ai propri cari. Ogni anno,
stagione e mese, Felice ed i suoi abitanti continuarono a vivere serenamente ed
il loro benessere era invidiato da chi abitava sugli altri monti, che non
capiva dove e come riuscivano a trarre fuori tutta quella felicità ed amore.
In
una notte d’inverno, quando tutti stavano dormendo e sognando la neve, che
soffice era caduta per tutta la giornata rendendo il paese incantato e
fiabesco, alle porte di Felice incominciò a farsi avanti un personaggio
sconosciuto; e ancora per pochi secondi ignoto agli abitanti…il Vento.
Il
vento con il suo mantello trasparente avvolse le case. Con le sue catene ai
piedi si trascinava disperato per le strade e le campagne, facendo fluttuare
nell'aria la polvere e le foglie che sembravano danzare un ballo frenetico e
folcloristico al ritmo delle folate e del canto stridulo, profondo e tetro. Il
vento con le sue catene, simile ad un fantasma senza tregua e pace, sbatteva
contro ogni cosa che gli venisse incontro. Le finestre di tutto il paese si
accesero in contemporanea. alcune persone si alzarono di colpo e spinti dalla
curiosità andarono ad udire meglio quello strano essere, che aveva tolto il
sonno sereno agli abitanti e a sua volta aveva frantumato quella “strana”
tranquillità, che regnava da sempre su Felice. I bambini, impauriti, si
rifugiarono fra le lenzuola dei genitori, cercando di ritrovare la via dei
sogni innocenti e fantastici, che quella notte avevano aggiunto, ai vari colori
dell’allegria, le sfumature nere, grigie ed opache della paura. Il cielo
incominciò a farsi più scuro del dovuto, sembrava che il vento con i suoi soffi
avesse spento anche le stelle e la luna nel firmamento, dove presero posto
grandi nuvole cariche di pioggia, lampi accecanti e tuoni, che fecero
spaventare anche gli animali nelle stalle. Dopo pochi secondi la pioggia
aumentò e si crearono varie pozze d’acqua sull'asfalto rovinato. Gli uomini
coraggiosi uscirono dalle loro calde case e, ben coperti, andarono nelle
campagne a vedere se il vento fosse passato anche di lì. Giunti con le torce in
mano, chi a piedi chi in bici, videro tutto il raccolto distrutto; i visi dei
contadini parlavano da soli e a bagnare i loro occhi non era solo la pioggia, che
imperterrita stava cadendo, ma anche le lacrime amare e dolorose del pianto
silenzioso. Anche i nobili non riuscirono a chiudere occhio quella notte e le
varie notti successive a quella tempesta, che non diede speranze di poter
vedere i raggi del sole e di poter udire il bel canto degli uccelli. I
contadini, i nobili e tutta la comunità, coperta da lenzuoli o da ombrelli, si
riunì qualche giorno più tardi, nella piazza centrale e un esperto di
meteorologia, ma anche storico, venuto da un paese non lontano dal loro,
comunicò che quel vento era un avvenimento speciale, che ogni millennio, nella
prima settimana di dicembre, si scatenava contro Felice. Il meteorologo parlò a
lungo e disse che dietro a questa vicenda climatica c’erano tante leggende.
Raccontò di una bambina, che proprio a Felice, dopo una giornata ventosa, venne
trovata abbandonata vicino alle scale di una villa di una nobile famiglia.
Questa adottò la piccola trovatella e le diede il nome di Anna. Quel paese, che
era sempre stato felice di nome e di fatto, incominciò ad essere infelice e
triste. Quella bambina crebbe col passare del tempo e i suoi occhi neri
incutevano disagio a chiunque la guardasse. Anna, infatti, non conobbe mai il
significato dell’amore, dell’amicizia, della fede…dell’umiltà, ma approfittò
della sua figura malefica rendendo succubi, della sua cattiveria, tutti coloro che volevano essere gentili con
lei. Visse di solitudine fino a quando una sera di dicembre morì e proprio in
quella notte un vento minaccioso, freddo, risuonò tra i vicoli del paese. Si
crede che questo vento, che ogni millennio ritorna a Felice sia l’anima tetra,
ostile ed infelice di quella bimba bruna, venuta dal nord che ritorna per far
svegliare la paura nelle anime innocenti ed allegre degli abitanti, e come
giunge se ne va da Felice con il vento, suo unico amico.
Lo
storico, ad un certo punto, venne interrotto da un ragazzo che gli
chiese-:”Signore ma come fate a conoscere questa leggenda, legata al mio
paese?”-E lo storico-meteorologo rispose-:” Una volta anche i miei avi
abitavano a Felice, e quel vento io lo interpreto non solo come l’anima
infelice di Anna e della sua leggenda ignota, ma come la disperazione, la fame,
la carestia, la morte ed il dolore che hanno costretto i miei avi a
scappare,tanto tempo fa, dal Sud, da questa piena d’amore, a causa di una
guerra. Dove il male è riuscito a predominare sul bene, calpestando con
brutalità i sogni e le speranze di chi credeva nella pace e nella parola, non
nelle armi e nel sangue, che hanno distrutto e bagnato il loro ed il vostro
paese troppo perfetto per poter essere accettato e amato dal resto del mondo,
invidioso ed imperfetto basato sulla cattiveria, la violenza contro i più
deboli. Lo so, conoscere la verità fa male, anche io soffrì quando mia nonna mi
raccontò di ciò che avevano subito, per salvare la felicità e la libertà .
Prima di questo vento, che vi ha sorpreso l’altra notte, non conoscevate la
storia delle vostre radici, perché vivevate nella bambagia, in una sfera serena dove vi siete sempre distinti. Ora
ancor di più, forse grazie anche al vento del nord che vi ha svegliati, dovete
coltivare, amare, rispettare, crescere e morire in ciò che credete senza aver
paura del giudizio degli altri e di chi discrimina i vostri ideali, perché
vorrà dire che coloro, nel non apprezzare la felicità, saranno figli del vento
e della guerra”.
La
comunità ascoltava ammutolita quell'uomo che, dopo aver parlato così tanto,
sorrise a tutti e lasciò la piazza. Ad un tratto la pioggia cessò di cadere e
un bambino, con i suoi occhietti ancora stupiti dalle parole di quel signore,
alzò lo sguardo e vide come un miracolo il sole intimorito, che faceva capolino
da una nuvoletta sola nell'immenso azzurro del cielo che venne illuminato dai
raggi e dai sorrisi caldi degli abitanti di Felice.
Il
vento volto nel suo mantello e con le sue catene era scomparso. Nel silenzio le
persone, guardando verso occidente il monte più lontano, immaginavano il Vento
del Nord che con il suo destriero se ne andava per nuove avventure, salutando
con la mano e celando nell'anima la sua sconfitta e la voglia di ritornare a
visitare tra un millennio quel paese magico, ancor più solare, allegro e Felice
di sempre.
Dopo
aver lanciato un urlo di felicità, la gente si ricongiunse all'armonia che era
stata rotta da quel mal tempo.
Quel
ragazzo, che pose la domanda allo storico, da quel giorno si arricchì
maggiormente; infatti, mentre gli altri erano con il naso all'insù, vide
quell'uomo incamminarsi verso le porte del paese e, come il vento, scomparve per
magia dalla sua visuale. Però, prima di svanire del tutto, sorrise a quel
ragazzo, che nel vedere quel gesto capì che chi aveva parlato per ore al centro
della piazza e che aveva aperto gli occhi alla gente di Felice, per non cadere
nella disperazione, era stata la Speranza. Da allora quel ragazzo non la perse mai.